È di animo nobile, sempre molto umile e raramente alza lo sguardo quando parla con qualcuno, quasi come si vergognasse. Tranne con me, a volte, poche volte, mi guarda e mi sorride.
La prima volta che ho avuto il piacere di incontrarlo, lo ricordo bene, era di un sabato sera, era tardi e pioveva a dirotto.
Di fronte a dove abito c’è un palazzo con un ampio colonnato, da tempo ormai diventato sede notturna di vari clochard che a quell’ora si sistemano l’uno accanto all’altro.
Si possono udire le loro voci già da lontano anche perché la struttura che li ospita fa da camera acustica, si capisce poco di quello che dicono, si sentono molte risate, anche nella loro disperazione, trovano il modo per i momenti di sana allegria.
Rientravo a casa e per potermi riparare un po’ dalla pioggia, perché io dimentico sempre l’ombrello passando proprio sotto al colonnato.
“Ha una sigaretta?” Sinceramente ebbi difficoltà a capire cosa avessi sentito, la voce non era chiara ma quasi sussurrata. Non riuscivo neanche a capire da dove o da chi del gruppo venisse. “Ha una sigaretta?” risentii di nuovo. Voltandomi, per capire bene da dove provenisse la voce, riuscii a scorgere un uomo, seduto in terra, appoggiato al muro, tra una montagna di buste, cartoni e panni. Mi avvicinai e gli risposi con dispiacere che, anche se fumatore, non utilizzavo più le sigarette. “Grazie lo stesso” mi rispose, “faccia una buonanotte signore” mi augurò.
Fu forse per quella sua gentilezza, quel suo rispetto, che quella persona mi colpì e molto. Lo salutai e gli dissi che il giorno dopo, molto probabilmente, gliene avrei procurate alcune.
Qualche sera dopo tornai al colonnato, lui era lì, al solito posto, nel suo angoletto familiare. “Buonasera, le ho portato le sigarette”. Faccio una premessa, quasi quotidianamente incontro decine di persone che dormono in strada, io mi reputo mostruosamente fortunato ad avere un tetto, un lavoro che mi permette di vivere dignitosamente, non mi capita spesso di aiutare in questo modo queste persone, si regalo qualche spicciolo ai mendicanti, ai bisognosi gli abiti smessi, quelli in buono stato, oppure li consegno alle associazioni di volontariato, alcuni li ho donati direttamente alle persone, sono una persona che nel piccolo aiuta gli altri e alcune volte, certe persone, poche, do un po’ di più.
Quella sera al “senzatetto” portai, oltre alle sigarette, una pizza calda e una bottiglia di vino, lo so il vino avrei potuto evitarlo ma ho preferito pensare “meglio che beva un buon vino che un vinello scadente”.
Accettò tutto sempre con quella umiltà che lo contraddistingueva, mi disse “grazie, si accomodi e mi faccia un po’ compagnia, se le va”, io mi chiamo Nino.
Io, curioso come sono delle storie, non me lo feci ripetere due volte.
“Com’è il vino?” gli chiesi.
Ottimo! Anche se io non sono un gran bevitore, “noi”, lo beviamo più che altro per scaldarci un po’ e a volte per dimenticare il passato. Si, suona strano “dimenticare il passato” ma quei tempi ci riportano al dolore ancor più di quello del presente.
Come mai, gli chiesi timidamente, può raccontarmelo?
“Ieri” ovviamente ero diverso, avevo un lavoro, un bel lavoro, ero addirittura arrivato ai vertici, amministratore delegato di una grande azienda, avevo l’auto con l’autista, bei vestiti, viaggiavo. Sicurezza economica, gli amici, avevo una vita lavorativa stressante ma appagata. Poi tornavo a casa, naturalmente una stupenda casa a Posillipo e soprattutto avevo una moglie, una moglie meravigliosa.
L’unica cosa che ci mancava era solo un figlio che non è mai arrivato, così decise il destino, ma ne avevamo una decina adottati a distanza e, non so perché, non abbiamo mai pensato di adottarne uno per noi.
Oggi di tutto questo non ho più nulla, mi restano solo i ricordi e il rimorso del tempo che ho sprecato per gli altri e il tempo che ho perso per noi e sono qui, a quasi settant’anni, che mi chiedo ancora dove ho sbagliato e perché.
Quando si vive nel lusso, nel benessere, si dà meno valore a tante cose, soprattutto a quelle più piccole, a quelle che ci circondano. Non si pensa a “come ho fatto ad avere tanto successo, chi mi ha aiutato, e perché”. Non si dà peso a tutte le sere che non sono rientrato a casa per lavoro, a tutti i baci che non ho dato a mia moglie, alla sua tristezza per la mia assenza, alle date dimenticate, ai regali costosi inutili perché alla fine bastava solo un fiore. Tutto questo viene nascosto dietro al paravento del successo.
Quindi, Nino, se mi permette, ha ancora una moglie!
Avevo, ora non c’è più. Una moglie bellissima, si chiamava Clelia, eravamo compagni di banco alle scuole medie, siamo cresciuti insieme e già da allora progettavamo il nostro futuro, dei due sicuramente il saggio era lei. Perché amava la musica, aveva una passione, si diplomò al conservatorio e subito dopo, visto che era bravissima, iniziò a collaborare con una piccola orchestra di Napoli, diede vari concerti tanto da darle un ottimo successo. Tempo dopo la chiamarono per una tournée all’estero, una serie di concerti nelle capitali europee, tre mesi doveva durare, ma lei, per restare a casa e con me, rinunciò. Clelia aveva un corpo splendido, non molto alta ma in abito da sera e i tacchi alti, illuminava tutta la sala, le persone rimanevano incantati due volte prima da lei e poi dalla sua musica. Aveva delle mani meravigliose, le dita lunghe, affusolate, volavano sulla tastiera del piano e poi, due occhi azzurro cielo che quando ti guardavano brillavano come diamanti sul suo viso perfettamente ovale, come due stelle che spiccavano fra i suoi capelli neri corvino. Sperava e pensava di potermi donare un figlio che non è mai arrivato, ci abbiamo provato tanto e in tutti i modi. Dopo l’ultimo fallimento, con la perdita del bambino, decidemmo di smettere di provarci. Decidemmo, anzi forse decisi io, visto che lei acconsentì senza parlarne. In realtà ne soffrì tantissimo e la depressione è una brutta malattia.
Quando il Signore me la portò via, portò via anche me, solo che io non me ne resi subito conto.
Una sera, una delle tante, tornai a casa e sedendomi sul divano mi resi conto del vuoto, dell’assenza. Non avevo più bisogno di cercare il telecomando del lettore per la musica che lasciavo sempre in giro, perché era lì dove lo avevo lasciato la sera prima, cosi come le scarpe e tutte le altre mie cose.
Era il mio disordine, solo che prima, con Clelia, aveva un ordine.
Iniziai così ad andare al lavoro mentalmente diverso, cominciai a notare tutto quello che mi era sfuggito, tutto quello che a me non interessava. Gli appalti, le fatture, i fogli che firmavo, tutto quello che prima delegavo agli altri e iniziai a fare domande.
Fu allora che notai il cambio di umore e la differenza dei colleghi e degli amici che ora non lo erano più, io ora ero diventato il pericoloso. Neanche un mese dopo e fui arrestato dalla Guardia di finanza, venne fuori che molte gare d’appalto erano state truccate, molti regali fatti ai politici, naturalmente tutte cose non fatte da me come persona ma dall’amministratore delegato che ero. Niente più lavoro, casa, pensione, nulla, per lo Stato oggi io sono un cancro sociale.
Dopo esserci salutati, tutta la sera non riuscivo a dimenticare le sue parole. Cioè quanto conta fare la differenza tra le cose futili e quelle importanti, quanto tempo si perde a vivere storie di poco conto e nel frattempo ci si perde momenti meravigliosi, come il respiro della donna che si addormenta accanto a te o il suo sorriso mattutino. Dagli abbracci mai dati abbastanza a tutti i “scendi sono giù” invece dei “ci vediamo dopo”, perché il tempo tra “giù” e “ci vediamo dopo” è tempo perso.
Nino, come poi mi disse, “Ho sprecato tanto tempo, forse, addirittura, tutto”. Aveva sprecato il tempo, il prezioso tempo, in cose marginali invece di combattere per riavere il ciò che si stava perdendo, per rendersi conto dello stato di Clelia, delle sue silenziose ma reali richieste di aiuto. Nino aveva sprecato il suo tempo in riunioni e in viaggi senza risparmiarsi, solo per restare attaccato a quel ruolo che i soci gli avevano imposto per loro comodo, e che lui aveva accettato per comodità, per il successo. Denaro, casa, auto per Nino corrispondeva alla felicità, almeno così credeva.
Aveva le mani al petto, e un sorriso sereno quando lo trovarono al mattino i medici dell’ambulanza. Per tutti era un altro senza tetto che se ne andava per il freddo, un vagabondo senza fissa dimora ne storia, era uno che si faceva chiamare “Nino” e basta. Riuscimmo poi a conoscere il suo vero nome. Si chiamava Antongiulio Ballaricini di sessantasette anni e, soprattutto, non fumava.